Torna a Roma Giuseppe Capogrossi (1900-1972) con una grande esposizione a cura di Francesca Romana Morelli presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, da domani 20 settembre, iniziativa promossa dalla Fondazione Archivio Capogrossi nel cinquantenario dalla scomparsa dell’artista.
L’istituzione romana conserva il più importante nucleo di opere dell’artista, dalla stagione figurativa e tonale degli anni Trenta e Quaranta a quella Informale delle iconiche Superfici, una nuova produzione che venne presentata per la prima volta alla Galleria del Secolo di Roma nel 1950.
Lo introduceva il suo amico e sodale Corrado Cagli con cui Capogrossi aveva condiviso, insieme a Emanuele Cavalli, una parte importante del suo percorso iniziato come pittore figurativo. Ma la sua visione della realtà e delle arti visive è sempre stata molto rigorosa, fedele - come poi Capogrossi stesso ricorderà nel 1968 a margine della mostra Recent Italian Painting & Sculpture al Jewish Museum di New York - a linea, forma, colore, i riferimenti di una generazione che ha saputo scavare in primis dentro se stessa.
Lo ritroviamo il pittore Cavalli protagonista insieme a Capogrossi dell’Autoritratto del 1927, una composizione di estrema sintesi formale, dominata dal forte contrasto tra i toni scuri della maglia di Capogrossi in primo piano e quelli più luminosi dei volti e dello sfondo: dei suoi grigi finissimi e di sobrietà di accordi parlerà in seguito il critico Giuseppe Marchiori.
Giuseppe Capogrossi, Autoritratto con Emanuele Cavalli, 1927 circa. Collezione Privata
Sono questi gli anni in cui Capogrossi, nella stagione dei frequenti soggiorni a Parigi e della partecipazione alle Biennali di Venezia (1934 e 1936) e alle due Quadriennali di Roma (1935 e 1939), affida all’impasto di colore il compito di costruire l’immagine, suscitando da parte della critica d’arte non solo approvazioni ma anche perplessità (Che cosa c’è di veramente nuovo - scriveva Virgilio Guzzi in occasione della Biennale del 1934 - nelle sue composizioni, nel suo disegno, nella sua visione della realtà, dove ogni figura sembra ripetere un gesto, e non pare si muova davanti agli occhi e all’immaginazione dell’artista ma nella sua memoria?).
Il decennio successivo vede l’artista lavorare con una maggiore libertà espressiva di stampo neocubista su pochi temi quali le figure femminili, le nature morte, qualche paesaggio. Decisivo nel processo di geometrizzazione delle forme e progressivo abbandono della figurazione un soggiorno in Austria nel 1949, anno di esecuzione a Salisburgo dell’olio e tempera su cartone Superficie 028, dove nello zero è da intendersi una rinascita, una tabula rasa, ma soprattutto una nuova classificazione formale.
Giuseppe Capogrossi, Le due chitarre, 1948. Courtesy: Galleria Nazionale
Se prima era il colore, ora sono i segni tracciati sulla tela secondo una precisa logica, a costruire il vocabolario della pittura: la loro disposizione verticale e serrata accentua la bidimensionalità e ieraticità della composizione come in Superficie 419 del 1950 oppure, più dilatati e in un gioco bilanciato di pieni e vuoti, ne accentuano la dinamicità e la tensione centrifuga come nello straordinario Superficie 600 del 1960. Le variazioni saranno innumerevoli.
Giuseppe Capogrossi, Superficie 419, 1950. Courtesy: Galleria Nazionale
Giuseppe Capogrossi, Superficie 600, 1960. Courtesy: Galleria Nazionale
Nel 1954 Capogrossi espone nuovamente alla Biennale di Venezia: una sala personale con diciotto dipinti a partire dal 1950 e presentazione di Michel Tapié.
Il 1954 è anche l’anno in cui Capogrossi si confronta con il formato ovale, che per il critico Fagiolo Dell’Arco era dimostrazione che «anche un dato esterno come il supporto può entrare nella figurazione strutturalmente».
E’ ovale la Superficie 188, 1957, oggi in collezione privata: il dipinto è appartenuto al critico d’arte londinese Roland Penrose (1900 - 1984), pittore, letterato britannico, collezionista d’arte. Già tra le figure di maggiore spicco del movimento surrealista britannico, Penrose fu proprietario della London Gallery e fondatore dell’Institute of Contemporary Arts (ICA) dove nel giugno 1957 Capogrossi vi esporrà venti dipinti, su iniziativa di Carlo Cardazzo.
Il geniale gallerista veneziano, titolare delle gallerie Il Cavallino di Venezia e Il Naviglio di Milano, aveva stipulato con l’artista un contratto di esclusiva e avviato la diffusione e il commercio della produzione di Capogrossi anche all’estero.
Giuseppe Capogrossi, Superficie 188, 1957. Collezione Privata.
Chiudono la mostra una sala dedicata ai Rilievi bianchi degli anni Sessanta e il celebre arazzo Astratto (1963), ideato per la Turbonave Michelangelo.
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